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12 mercoledì Nov 2014
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10 lunedì Nov 2014
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Su un piano estremamente generale si potrebbe dire che il termine “poesia” è iperonimo (o iponimo) di sé stesso, per più aspetti. Ciò che interessa ai fini del nostro discorso è anzitutto l’ovvia constatazione per cui in sé la prosa esteticamente connotata è soltanto il corpo fonico della struttura mediale che la poesia ha acquisito, accanto al verso, con il passaggio dall’oralità alla scrittura, in una remota fase dell’evoluzione della medialità umana. Un ulteriore tratto originario della poesia è il suo discorso di riuso, unito al suo tessuto metaforico non ripetibile: una trama di one-spot metaphors, alternativa alla metaforizzazione replicabile, automatica, del linguaggio ordinario nel suo uso ordinario. Va tenuto presente che le metafore ordinarie del linguaggio ordinario hanno una remota radice nel biologico, nel sistema di associazioni ideativo-percettive che l’uomo, come organismo vivente, costruisce come basi della sua esperienza sin dalla culla. L’evoluzione linguistica o segnica del tessuto metaforico implicito in questo sistema ideativo-percettivo è un processo consueto, nell’esperienza individuale. Quel peculiare atto linguistico che si proponga come riprocessamento di aree ampie e fondamentali del tessuto metaforico dell’esperienza comune, al di là della bruta crescita individuale, è una espressione poetica. Per questa ragione l’espressione poetica ha origine in un contesto sciamanico, magico-religioso -si vedano tanto il vecchio aforisma di Borges secondo cui la poesia è un gioco di esercizi magici, quanto gli studi etnomusicologici e comparatistici che indagano la natura della connessione fra funzioni sacerdotali e forme poetiche o preletterarie nelle culture primitive. In effetti, la poesia riorienta il mondo. Le diverse poetiche individuali, all’interno di uno spazio letterario determinato, cercano poi di costituire per questi connotati generici un volto storicamente definito e plausibile in un certo tempo: una tipica storico-culturale del giudizio estetico-letterario che renda concreto -e dunque sensato- il lavoro poetico. In senso lato, tuttavia, riorientamento metaforico dell’esperienza e connotato “teurgico” del testo poetico restano nel sottofondo: il poeta dotto può storcere il naso, ma forse non è peregrino pensare che l’ambigua ricezione che la poesia ha oggi, fra marginalità di mercato e fascino perverso che induce quasi tutti a volersi avventurare nell’oscura terra del versificare, sia la versione 2.0 dell’ambiguo trattamento che l’uomo tribale riserva a chi traffica col soprannaturale vero o presunto: rifiuto e disprezzo, interesse e curiosità.
Ciò detto, veniamo a quanto attiene all’aspetto più vistoso di quello che io personalmente metto in versi: questa mia strana restaurazione metrica rimasta abbastanza in sordina -non è che abbia poi gran pubblico anche nella nicchia ristretta della poesia vera o presunta- fra più o meno vago rifiuto e più o meno vaga curiosità. In parte essa nasce come correlato della mia attività di traduttore di poeti di lingue antiche e da una riflessione sulla ricezione impropria che il testo poetico tradotto ha fra noi quando la sua struttura ritmica, che è la sua espressione mediale, viene ridotta a rigo di prosa -riflessione che mi ha portato a cercare di tradurre poesia ricostruendo forme. Tradurre ricostruendo forme, nel contesto della traduzione industriale, è considerato un’eresia per molti aspetti, fatta salva qualche occasionale eccezione. Si ricorre al ripetibile stico alineare. Ma appunto questa domesticazione soprasegmentale del testo dovrebbe indurre in sospetto. Se c’è una politica del tradurre, dell’interpretare un testo, e una politica del ritmo (cito Meschonnic, in modo improprio), c’è anche una politica generica dell’hermeneia intesa come procedura di interpretare il testo altrui ma anche il proprio modo di tessere il linguaggio (interpretatio come interpretazione e stile). Una politica dell’hermeneia a ritmo debole, o senza identità ritmica, è una politica dell’hermeneia che vuole ridurre la poesia a procedura ripetibile. Ovviamente non sto accusando il poeta di versi liberi o atonali di essere asservito a un sistema di produzione in serie per palati proni al banale. Sto affermando però che dal mio specifico punto di vista uno dei modi più efficaci di effettuare la mia individuale coupure épistèmique col discorso di consumo, anche con quel particolare tipo di discorso di consumo che è la (para-)letteratura di grande mercato, è una ristrutturazione del ritmo -non necessariamente così tradizionale come sembra -quale dimensione mediale insopprimibile del testo in versi. Inoltre non mi sono mai piaciute le cartoline postali rimaste inesitate nel mito totalizzante dello scriptum come obliterazione della voce a testimoniare l’assenza di un’assenza. Che lo si voglia o meno, un testo che abbia scopo estetico -riesca o no lo scopo -è una volontà di presenza.
Daniele Ventre
19 martedì Nov 2013
Posted Daniele Ventre, Ghérasim Luca, poesia, traduzioni
inno no nononò passo
nonò ppasso passo nonò
il passo no il passo falso il no
nonono, il passo il mal
il malva il malvagio no
nono passo il passo il papà
il malvagio papà il malva il no
nono passa nopassopassa
passa passa passa lui lui no passo
passa lui il passo del no del papa
del papa sul papà del no del passo
passapassa passi il sopra il
il passo il passi passi passi pisciate sul
papa su papa sul sicuro la sicuro
la pipa del papà del papa pisciate in massa
passa passa passi passapassi la passo
la basso passi passapassi la
passio passiofagotto il basso
il passo passione il fagotto e
il no il basso do passo
nono do passo passio passione do
non do non domi non passi non dominate no
non dominate no vostre passioni passive non
non domino vostra passio vostra vostra
ssio vostra passio non dodò vostro
vostro domino d’oro
è dandanno do dodoro
do no passo non domi
no nopasso passio
vostro no non do non do non dominate no
vostri passi passioni vostri no vostri
vostri passi divo divoranti non do
non dominate no i vostri ratti
non i vostri ratti
non do divoranti non do non dominate no
non dominate no le vostre passioni ragioni vostre
non daminate no le vostre non le vostre non do do
minate minate le vostre nazioni ne mai do
minate non do non mi no no i vostri ratti
le vostre appassionanti ragioni di ratti di no
no passa passio minate passo
minate no vostre passioni vostre
vostri razionali ragù di ratti divo
divorateli divo dido do domi
non dominate questo ha questo pregustare
di ragù di no di passo di
passi di pasigrafia gra fifia
grafia fia di fia
fifia fan fantafan
fantafan coco
fantascopio fifia
fofo fifia foto do do
dominate do foto minate fifia
fotomicrografate i vostri gusti
queste pulci coreografiche fifia
dei vostri disgusti dei vostri danni no
no sta passio passione di da
coco sco da i danni no
il passo no passionà passione
passione appassionato nato nato
è nato della nato
della nega da della nega
della negazione passione gra spu
sputate spu sputate sulle vostre nazioni spu
della neve è è nato
appassionato nato è nato
a rana a rabbia è
nato lui alla nato alla necrorana cra rabbia è
è nato lui della nato della nega
nega ga cra sputate della nato
della ga passo nega negazione passione
appassionata naso appassioniamo io
io t’à io t’amo io
io io jet io t’à gettate
io t’amo appassioniamo t’amo
io t’amo io io gioco passione io amo
appassionato ato ato amo amare
emergere amare io io io amo
amare emergere e e e passo
passi passi a a a a amo
ama emersione passione
appassionato ato io
io t’à io t’amo io t’amo
passa passio o passio
passio o mia gr
mia gra spu sputate sulle ragioni
mia grande mia gra mia te
mia te mia gra
mia grande mia te
mia terribile passione appassionata
io t’à io terri terribile passio io
io io t’amo
io t’amo io t’à io
t’amo amo amo io t’amo
appassionato ato amo io
t’amo appassioniamo
io t’amo
appassionatamente amante io
t’amo io t’amo appassionatamente
io t’à io t’amo appassionato nato
io t’amo appassionato
io t’amo appassionatamente io t’amo
io t’amo passio appassionatamente
Presentiamo quest’oggi il primo libro di Francesca Canobbio. Il titolo, “Asfaltorosa”; la collana, Arcolaio.
Introducono l”opera Daniele Ventre e Vincenzo Sparagna.
Per comprendere a fondo quest’opera di Francesca, pubblicheremo qui sotto due frammenti tratti dalla prefazione e postfazione.
Concluderemo l’articolo con la ripresa di qualche testo.
Buona lettura.
Dall’introduzione di Daniele Ventre:
Il romanzo della parola esplosa e ricomposta
“La poesia di Francesca Canobbio nel panorama della lirica di questi anni, segue un percorso specifico, alquanto composito e diversificato, in cui però si possono cogliere alcune tendenze di fondo, che la raccolta Asfaltorosa compendia nella loro apparente eterogeneità e nella loro unità sostanziale.
Un primo elemento che ne connota lo spirito come la lettera è la tendenza a un lusus verbale che pone in essere un sistematico straniamento nel quotidiano, attraverso la ripetuta violazione delle attese linguistiche del parlato ordinario. Nello stesso tempo, la parola straniata, distolta dal suo contesto ordinario e fissato da tic linguistici ormai consolidati, viene ridefinita da nuove coordinate semantiche e sintattiche, all’interno di una struttura di frase alquanto articolata, spinta deliberatamente al limite del contorto. ”
***
Dalla postfazione di Vincenzo Sparagna:
“… Torno a rileggere e trovo questo “Ingoiare amaro amore come pane tra le righe” che potrebbe farmi pensare alle sofferenze degli abbandoni se non fosse che appena qualche pagina appresso ecco apparire la figura di un “autentico falsario” che “conosceva a menadito / i trucchi del mestiere”. E viene il sospetto che il falsario sia io stesso che mi racconto il sogno appena fatto o l’autrice o un suo doppio teatrale (amletico appunto) e che quello struggimento d’amore sia anch’esso un trucco, una figurazione surrealista, la distruzione della pittura attraverso la pittura medesima. Forse questi versi sono, come dice uno di loro, solo “la nuvola che ci nasconde la notte”, oppure sono semplicemente “l’inatteso imprevisto …”.
***
Alcune poesie:
Scivola
Tutto sulla plastica scivola
anche il sangue.
Tutto scorre
ma non ci bagna il fiume
nell’apnea dei tempi.
Tutto scivola sul petrolio
anche il sudore
della vertigine dei suoli
scivola
sugli abissi dei vertici.
Tutto scivola
e niente pesa:
come il petrolio
galleggia sul mare
ed il petrolio
pesa più del mare.
Tutto scivola
e continua a scivolare…
—
La notizia
Strepitare di voli angelici
tocca suoli terreni
Senti le ali fluttuare
sul confine del regno.
Dove è segno una bianca piuma
sull’inchiostro nero
del nostro terreno vagare.
Fra le pagine sporche
del primo giornale del mattino …
… la notizia
—
Che suoni muta
Le daremo un nome
che suoni muto.
Che non si perda all’orgia
dei pentagrammi.
Che non batta fra denti e labbra
nei palati già umidi di parola
(fra le arcate
voce
che gola strozza).
Chiuderemo a chiave la nota:
che suoni muta
incastonata
fra il pilastro delle dita
e la cornice della bocca.
Contrapposti.
Muti e casti
http://arcolaio.ning.com/profiles/blogs/esce-oggi-il-primo-libro-di-francesca-canobbio-asfaltorosa
17 martedì Set 2013
Posted arte, Casa editrice Mesogea, Daniele Ventre, epica, eventi, letteratura, lettere classiche, libri, Odissea, Omero, traduzioni
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arte, Casa editrice Mesogea, Daniele Ventre, epica, eventi, letteratura, lettere classiche, libri, Odissea, Omero, traduzioni
Dalla traduzione in esametri dell’Odissea di Daniele Ventre, in corso di pubblicazione per la casa ed. Mesogea
Omero
Odisseo e Laerte
(Odissea, XXIV, 219-348)
Come ebbe detto, l’eroe lasciò le armi d’Ares ai servi;
dentro la casa essi in fretta entrarono; Odisseo, frattanto,
s’avvicinava al fecondo frutteto, a provare suo padre.
E tuttavia, traversando il grande filare, non vide
Dolio, né i figli, né gli altri serventi, poiché tutti, allora,
a raccattare dei sassi, per farne un recinto al frutteto,
erano andati e i suoi uomini il vecchio guidava per via.
Solo suo padre egli vide, in quel ben tenuto frutteto,
presso una pianta zappava; vestiva un chitone sdrucito
e rattoppato, indecente, e intorno alle gambe allacciava
delle gambiere cucite in cuoio, a sottrarsi dai graffi,
contro le spine portava i guanti alle mani; e di sopra,
sulla sua testa, un berretto di capra, accrescendo la pena.
E non appena lo scorse, lo splendido Odisseo costante,
dalla vecchiaia disfatto, soffrire aspra angoscia nel cuore,
pianto stillò, si fermò all’ombra d’un pero in rigoglio.
Ed esitò, nel suo cuore, nell’animo, allora, dubbioso,
se ricoprire di baci il padre e abbracciarlo e narrargli
tutto, in che modo giungesse, tornasse alla terra dei padri,
o interrogarlo, da prima, e su tutto metterlo a prova.
Egli così dubitava, e gli parve fosse più saggio
metterlo prima alla prova, parlandogli argute parole.
Con quel proposito mosse lo splendido Odisseo a incontrarlo.
A capo chino zappava intorno alla pianta, Laerte;
dunque, accostandosi, a lui si rivolse il fulgido figlio:
“Vecchio, non mostri di certo imperizia nell’accudire
questo filare, ma è ben curato, e certo nessuna
pianta in giardino difetta di cure, né fico, né vite,
non un olivo, nemmeno un pero, neppure un’aiola.
Altro, però, ti dirò, ma non porti collera in cuore:
tu, per contrario, non sei ben curato, insieme vecchiaia
lugubre soffri e t’avvince squallore, ed hai misere vesti.
A trascurarti non è, per la tua pigrizia, un padrone,
né per aspetto e statura mi sembra ti segni, a vederti,
vita servile: somigli a un uomo di rango regale!
Già, tu somigli ad un uomo che appena lavato e nutrito,
dorma fra morbide coltri, com’è privilegio dei vecchi.
Questo, però, dimmi, adesso, e svelami in tutta chiarezza
di quale uomo sei servo? E per chi il filare accudisci?
E dammi poi veritiera risposta, a che io sappia bene,
se veramente noi siamo in Itaca, come mi disse,
mentre venivo quaggiù, un uomo che ho appena incontrato,
uno di cuore ben duro, ché non accettò di spiegarmi
tutto, e nemmeno di udire parola da me, quando chiesi,
quanto ad un ospite mio, se ancora sia al mondo, e sia vivo,
o se è perito, oramai, ed è nelle case dell’Ade.
Già, poiché questo ti dico, e adesso comprendimi, e ascolta:
là nella terra dei padri io diedi accoglienza ad un uomo,
al mio palazzo era giunto, e no, nessun altro mortale,
fra gli stranieri lontani, più caro mai in casa mi giunse;
e si vantava di stirpe itacese e ancora diceva
che fosse suo genitore il figlio d’Archesio, Laerte.
Io lo condussi alla mia dimora e un buon ospite fui,
con ogni cura l’accolsi, poiché c’era molto a palazzo,
quindi gli feci dei doni ospitali, come conviene.
Oro di buona fattura gli diedi per sette talenti,
tutto d’argento gli diedi un cratere, ornato di fiori,
dodici semplici manti, con essi altrettanti tappeti,
poi anche splendidi lini e ancora, altrettanti chitoni,
quindi, in aggiunta, anche donne d’un arte impeccabile esperte,
quattro, d’aspetto leggiadro, che scegliersi volle egli stesso”.
Gli rispondeva a sua volta il padre, che pianto stillava:
“Certo, straniero, hai raggiunta la terra di cui mi domandi,
ma la governano ormai degli uomini folli e superbi.
Vani, quei doni di cui fosti largo, dandone tanti;
se in terra d’Itaca vivo l’avessi potuto incontrare,
ben ricambiandoti i doni, t’avrebbe da sé congedato,
con accoglienza gentile: è giusto, per chi dona primo!
Questo, però, dimmi, adesso, e svelami in tutta chiarezza:
quanti son gli anni trascorsi dal tempo che tu l’accogliesti,
l’ospite tuo sventurato, mio figlio, se pure fu mai?
Misero: certo lontano dai cari, da terre di padri,
l’hanno mangiato nel mare i pesci, o magari sul lido,
preda divenne di belve e uccelli e non l’hanno composto
non l’hanno pianto la madre e il padre che l’han generato;
ricca di doni, la sposa, Penelope, ricca di senno,
no, non ha pianto lo sposo sul feretro, come conviene,
e non ha chiuso i suoi occhi: è questo l’onore dei morti!
E dammi poi veritiera risposta a che io sappia bene,
chi sei al mondo, e di dove. E dove hai città, genitori?
L’agile nave dov’è, sì, quella che te qui condusse,
e, pari a dèi, i tuoi compagni? O come mercante sei giunto
sopra una nave straniera, e andarono via, te sbarcando?”.
E gli diceva in risposta Odisseo ricco d’ingegno:
“Certo, ti risponderò con piena chiarezza su tutto.
Sin da Alibante provengo – ho là mie gloriose dimore –,
io, del sovrano Afidante, del Polipemonide, figlio;
il nome mio è invece Eperito; dalla Sicania
via mi respinse qui un dio, perché vi giungessi nolente:
dalla città sta lontana, dal lato dei campi, la nave.
Ma per Odisseo questo è oramai il quinto anno che volge,
dopo che via se n’andò, e dalla mia patria si mosse,
misero; eppure partì con lieti presagi d’uccelli,
tutti da destra, di cui io gioivo, nel congedarlo,
egli gioì, nel partire: e l’animo nostro sperava
di rinnovare accoglienza e scambiare doni stupendi!”.
Disse e piombò su Laerte una nera nube d’angoscia;
egli con ambe le mani afferrò la cenere bruna
se la gettò sulla fronte canuta, fra mille lamenti.
Ne fu sconvolto nell’animo, Odisseo, e per le narici
acre l’impulso del pianto salì, nel vedere suo padre.
E lo baciò, l’abbracciò, protesosi a lui, poi gli disse:
“Ah, sono io, sono io, padre mio, colui di cui chiedi,
io che la terra dei padri ho raggiunta dopo vent’anni!
Ora, su, frena il lamento e il tuo lacrimevole pianto.
Già, poiché questo ti dico, ed è tempo ormai d’affrettarci:
dentro la nostra dimora ho fatto sterminio dei Proci,
l’onta angosciosa ho così punita, e gli indegni misfatti!”.
Ed a sua volta rispose Laerte e spiegò la sua voce:
“Se sei Odisseo davvero, il figliolo mio che ritorna,
ora tu dammene un segno visibile, sì che ti creda”.
E gli diceva in risposta Odisseo ricco d’ingegno:
“Con i tuoi occhi da prima esamina la cicatrice
che sul Parnaso m’inferse un verro col candido dente,
quando vi andai: tu m’avevi inviato e la nobile madre,
là, dal mio nonno materno, Autolico, per ottenerne
doni, che giunto fra noi m’aveva promessi e accennati.
Ed anche gli alberi, via, qui nel ben tenuto frutteto,
ti elencherò, che m’hai dati un tempo, e di tutti io chiedevo,
giovane ancora, nell’orto seguendoti; noi fra le piante
camminavamo, tu ognuna indicavi a nome e svelavi.
Tredici peri tu m’hai donato ed in più dieci meli,
fichi, quaranta; e filari di vite ne avresti a me dati,
mi promettevi, cinquanta, e in tempi diversi da ognuno
si vendemmiava. Da quelli ogni specie d’uve nasceva
quando stagioni di Zeus li avevano resi maturi”.
Sì, così disse, ed a lui si sciolsero cuore e ginocchia:
ben riconobbe quei segni sicuri che Odisseo svelava.
E circondò con le braccia suo figlio; ed allora lo resse
ch’era oramai senza fiato, lo splendido Odisseo costante.
( in appendice a ” E quel poco d’amore che c’è”, di Emanuele Bianco, Fandango Libri, 2013)
Daniele Ventre (n. a Napoli nel 1974) ha pubblicato per l’ed. Mesogea la traduzione dell’Iliade di Omero (2010 -premio Achille Marazza 2011) e del Ciclope di Euripide (2013). Di prossima pubblicazione una sua traduzione dell’Odissea. Nel 2011 ha pubblicato per le Edizioni d’If di Napoli la raccolta “E fragile è lo stallo in riva al tempo”. Collabora con il blog Nazione Indiana.